Uno spazio al disordine (un mediatore in un gruppo classe)

Uno spazio al disordine

 

Attraverso la parola può compiersi la trasformazione…Ad uccidere sono dapprima le parole…esse sono l’immagine della sofferenza di ogni individuo….

E’ nella “simmetria” delle emozioni che le parole possono essere ritrovate, offrirsi, come mezzi per risolvere le tensioni. Parlare, gridare “con gli altri” significa creare uno spazio di parola. Tale spazio permette di trovare una distanza, che è necessaria affinché ognuno possa vivere e superare le proprie contraddizioni e la propria sofferenza[1].

Il bisogno di parola non è riconosciuto all’interno del sistema scolastico. La sofferenza che genera un conflitto è messa a tacere, essa esiste soltanto all’interno del ragazzo che vive l’incomprensione. Lavorare con i ragazzi sul tema del conflitto è stato come togliere un tappo, rovesciare la bottiglia, lasciar scorrere dell’acqua compressa. Per raccontare come ci sente durante un conflitto, tutti alzano la mano, la tendono sempre più in alto per evitare di passare inosservati, anche il più timido non esita e dice “Io, Io”: vogliono la parola. E’ un’occasione che nessuno vuole perdere. Vogliono dire ciò che non dicono mai: che cosa li attraversa quando litigano con un compagno, quando quello toglie la parola, insulta, picchia, quando si rischia di perdere un’amicizia. Vogliono sfogarsi, tirare fuori, raccontare le loro ragioni. Il confronto con l’evento doloroso, ingiusto, è l’ostacolo che deve essere incontrato affinché possa essere superato. La sofferenza deve essere accolta per essere trascesa[2]. In cerchio, uno di fronte all’altro, ogni ragazzo coglie questa possibilità. Le mediazioni riparative avvenute tra due coppie di compagni dimostrano che si può arrivare alla pacificazione attraverso un processo di ascolto reciproco, di comprensione verso l’altro, della logica dei suoi gesti, della sua visione del mondo, della sua richiesta di essere riconosciuto come persona[3]. Intravedono un’alternativa alla violenza. In cerchio si liberano dalle loro emozioni, si confrontano, tornano su loro stessi lasciando pensieri assorbiti nel mondo adulto, che non li appartengono. Ma in un mondo in cui tutto è spiegabile, in cui la ragione ha cancellato il mistero, il disordine legato al mondo delle emozioni non ha alcun posto…Il nostro desiderio di banalizzare, di negare il disordine, ci priva della possibilità di accettarlo, possibilità che è invece l’unico modo per superarlo, poiché dobbiamo ricordare che l’ordine e il disordine sono intimamente legati fra loro e che l’uno non esiste senza l’altro[4].In una prospettiva di accoglienza emozionale e in uno spazio non giudicante riescono a rovesciare pregiudizi e paure, affrontarle, lasciar andare. In cerchio, guidati, possono mettere in discussione l’arbitrarietà dell’equivalenza uso della violenza e successo personale[5].C’è il bisogno di essere accolti. Solo quando saremo pronti ad accogliere il disordine nella nostra società esso potrà integrarsi e trasformarsi. Non c’è luce senza tenebre; si tratta di trovare quel movimento di oscillazione tra le due, in cui l’una diventa complementare all’altra[6] C’è il bisogno di sentirsi e di sentire le emozioni dei compagni. Ciò che si sente dell’altro non è mai buono o cattivo, semplicemente c’è. Il mediatore cerca di trasformare questa esperienza vissuta dai nemici in competenza appresa, si appoggia solo sulla certezza che è la perdita di consapevolezza dell’altro come persona a consentire il colpo. Il suo lavoro consiste nel mantenere fra i due (nel caso del progetto svolto, fra il gruppo) una comunicazione umana o di ripristinarla se questa si è perduta. Per farlo bisogna che i due ritornino a sentirsi, ma nel conflitto, da un certo momento in poi, essi non possono più farlo da soli e devono essere aiutati da un terzo[7].

La perdita della consapevolezza dell’altro come persona, il non sentirlo più conduce alla violenza, fisica e verbale. Il progetto sulla prevenzione al bullismo è stato un lavoro sul riconoscimento dell’altro come uguale a sé e come soggetto degno di apprezzamenti, complimenti, qualità e sul dialogo.

Tutti i conflitti presentano la stessa evoluzione. La violenza nasce come risposta alla sofferenza di ciascun individuo. E’ molto contagiosa e, rapidamente, conduce a uno scambio reciproco di gesti che reclamano vendetta. Ci troviamo così all’interno di un ciclo che si autoriproduce e che deve essere spezzato. Occorre uscire dalla violenza individuale affinché essa possa esprimersi in modo non simmetrico. Bisogna dunque insistere sullo spostamento della violenza, poiché si tratta di un passaggio essenziale per spezzare la catena della violenza stessa[8]. E nella spirale dell’escalation il conflitto si gonfia di autonoma energia superiore.

Le parole di T., nel cerchio, sono esemplificative: il conflitto è un’energia che, ad un certo punto, non so più gestire. E mi viene da dare un pugno. Bisogna dare ai ragazzi uno spazio per prendere consapevolezza che la propria rabbia può essere canalizzata altrove e può essere trasformata, che è normale provarla e volerla sfogare (non è raro che alcuni ragazzi dicono che dopo un conflitto si sentono per un verso bene perché si sono liberati e per un altro male perché hanno ferito o maltrattato un compagno).

Il conflitto, indissociabile alla violenza, è il grido che viene lanciato affinché il disordine possa ritrovare il suo posto. Il fatto di evitarlo, di fuggirlo, di banalizzarlo, ci priva drammaticamente dei frutti che il conflitto può offrire.[9] Solo attraverso l’accettazione che il disordine non può essere espulso totalmente dall’esperienza umana ogni uomo può manifestare senza vergogna ciò che lo muove nell’agire[10]. I ragazzi intuiscono che il conflitto può essere un’opportunità di evoluzione, ma non avendo mai l’occasione di parlarne lo associano ad un evento esclusivamente negativo. Bisogna parlare con loro di che cos’è un conflitto, dargli la possibilità di cercare in loro le vie non violente che ritengono più adatte. Proprio perché contraddizione e conflitto fanno parte dell’esperienza umana, la violenza può essere considerata come un tentativo errato ed infruttuoso di uscire dall’impasse [11]. 

 

 

 

 

 

 

 



[1] Jacqueline Morineu, Lo spirito della mediazione, Franco Angeli Editore, 2000, p.54

[2] J.Morineu, opera citata, p.61

[3] Pasquale Busso, Lotta e cooperazione, Armando Editore, 2004, p.65

[4] J.Morineu, opera citata, p.52

[5] P.Busso, opera citata, p.64

[6] J.Morineau, p.52

[7] Judy Korn-Thomas Mucke, La violenza in pugno, EGA editore, p.11

[8] J.Morineau, p.55

[9] J.Morineu, p52

[10] P.Busso, opera citata, p.65

[11] P.Busso, p.65

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